
Ovvero verifica incerta di una accorata fascinazione
Quando ho conosciuto Mario Bianchi, ormai, non lo ricordo: ho comunque molto vivida, di quell'occasione, come una grave sensazione, al contempo di disorientamento e obiettività. Detto altrimenti, ricordo di aver provato una subitanea e strana attrattiva per qualcosa d'indistintamente folle e pure lucidissimo. Confrontandomi con altri, parimenti scioccati, avevo però riscontri opposti alla mia involontaria fascinazione: calcavano la mano, per così dire, sulla follia perfezionistica, dimenticando l'estrema, freddissima obiettività che invece m'incantava e teneva in ostaggio.
Ma questo sfuma nel passato: col tempo, in realtà, sia rapportandomi alla persona, sia, soprattutto, cercando di comprenderne i lavori tanto perfetti quanto inquietanti, si è progressivamente rivelata una differente verità, almeno sul versante “follia”. Questa, in effetti, si è sempre meglio manifestata come dolore: un dolore empatico che non stenterei a definire assoluto. Sì, perché a considerare i lavori di Mario, dai più lontani agli ultimissimi, è questo che prorompe inequivocabilmente: un dolore senza pari pungolato da una fortissima e vitale – starei per dire biologica, chimica, sanguinante – empatia. Con la carne e la materia, col carnefice e la vittima, con la malattia e il malato: in uno, col tempo-distruttore-costruttore.
Non sarò certo io a scoprire la dedizione, la coerenza, la lucidità e l'apertura di Mario in quanto persona: ma che le sue opere ne siano come la testimonianza e l'impronta assolute (senza tema d'esagerazione), questo mi appare proprio mentre ne scrivo: ne ho intravisto il delinearsi soffermandomi a osservare la foto in cui Mario ha ritratto gli ultimi giorni del padre, quasi nonagenario, accomodato in un salotto ineccepibile presidiato – però – da una bombola d'ossigeno. Nella calma apparente dell'immota scena, ho sentito il lucidissimo dolore del figlio attaccarsi agli ultimi brandelli di vita del padre.
E ora capisco che questo ha sempre fatto Mario: nonostante, anzi, attraverso e grazie al suo estremo rigore obbiettivo, ha cercato e cerca di rendere visibile nella dissoluzione – della morte, della malattia, della violenza, dello scorrere del tempo, della fatica dei suoi simili animati o inanimati – la timida eppur dignitosa forma di vita che di volta in volta trova nel suo percorso.
Baudelaire, che ritengo provasse qualcosa di molto analogo, lo espresse poeticamente con l'intento di cogliere-strappare – attraverso l'atto creativo – i fiori dal male.
Intreccio degli opposti, dunque, e originaria ambiguità, e simbiosi caratterizzano la lucida e sisifea esperienza del dolore-tempo in Mario Bianchi: le sue opere (si) fanno luce nell'estremo tentativo, sempre reiterato e mai risolto nei vari percorsi (tracce creaturali impresse nella materia millenaria, artificio e natura, malattia, stupro, sublimazione, elevazione o lavoro fisico che siano), di aggrapparsi fin con le penultime forze, al penultimo scoglio di vita, di attività, di testimonianza, di arte, sconquassato dalle mille ondate mortifere dell'oceano-tempo. Sì, perché le ultime forze e l'ultimo scoglio non sono date a vedere a chi le affronta…
Ad avviare una sorta di ricognizione del lavoro di Mario, vorrei segnarne l'accesso, attraverso due citazioni autorevoli, con due colonne ideali che mi pare animino la sua attività:
«Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed esser giudicate per la loro ingiustizia, secondo l'ordine del tempo».
«Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l'unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno. Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda».
Come numi tutelari a cui il Nostro sembra essersi votato, il riconoscimento dell'ordine del tempo e la responsabilità di fronte al male rappresentano, come in filigrana, quanto di più fondamentale le sue fotografie mi hanno rivelato circa il senso della sua ricerca; questo grazie a una immagine, quella sopra ricordata, che qualificherò in questo contesto come la mia foto-olone: l'olone è un'entità che può essere considerata sia un tutto autosufficiente, sia una parte dipendente da altre, a seconda del punto di vista. è esattamente quello che è stata per me quest'opera rispetto al lavoro complessivo di Mario Bianchi.
Vediamola, dunque, più diffusamente. Interno: soggiorno, ordinato e lindo, in cui compaiono i genitori di Mario in “posa indifferente”, e un cagnolino, invece, in “posa differente”, essendo l'unico che ammicca al fotografo. I due protagonisti sono ripresi di lato, mentre stanno seduti su due poltrone di pelle nera, non allineate, ma entrambe rivolte a uno schermo televisivo – anch'esso nero e – spento. Al centro della scena, in primo piano e sul lato destro del padre, accomodato in prima fila, una bombola d'ossigeno bianca, perfettamente al centro di una corona vegetale parte dell'ampio motivo che caratterizza un grande tappeto che fa da base all'intera azione. La bombola si staglia sul nero della poltrona, che a sua volta (con un divano identico in secondo piano) troneggia e si stacca in controluce su una porta finestra inondata di luce soffusa. Il tutto immobile, posato, inattivo, se si fa eccezione dello sguardo timidamente complice dell'animale e la sua leggera, altrettanto contenuta torsione, quasi ad alzarsi. Un Hopper padano, azzarderei d'acchito, dominandovi una freddezza (nel senso di rigidità) della luce, della visione, della posa, della situazione e dello schermo oscurato, ma anche (nel senso di ordine quasi ossessivo) di una certa tradizione dell'arredamento, dell'ospitalità, dell'artigianato e in generale della cultura borghese e cittadina reperibile pressoché identica in buona parte dell'Italia settentrionale non contadina. Eppure si avverte che tale freddezza è come composta con delicatezza, a far da contrappeso ad una impercettibile, flebile ma determinante partecipazione: posati, in ogni senso, i soggetti hanno stretto un patto col fotografo, anche questo lo si percepisce, e hanno accettato di smettere i loro panni quotidiani per indossare le maschere di un rito, che celebra la vita sovra individuale al sopraggiungere di una morte individuale. L'esilissimo filo che tiene ancora desta tale rappresentazione, compone per un momento una risonanza tra un ordine sociale (familiare e domestico) e un ordine del tempo secondo cui ci definiamo – letteralmente e oggettivamente – mortali, perituri. In questa precisa risonanza e composizione, nella foto – ovvero nella luce – i protagonisti sublimano se stessi e le loro situazioni per condividere la propria elevazione: ciascuno, madre, padre e fotografo-figlio, è per un momento – oltre se stesso – elevato a maschera di un rito fuori dal quotidiano.
La malattia, la vecchiaia, e la morte, ossia l'ordine del tempo nelle sue accezioni umane d'incontro con l'alterità del morbo, della consunzione e del decesso, non sono vissute e conosciute in questo caso soltanto individualmente, ma proprio con questa sorta di rito (non esclusivo, del resto) vengono ri-conosciute, ri-presentate e sublimate a un livello differente da quello quotidiano e in modo condiviso dal (celebrante) fotografo (quasi forma sacerdotale che iscrive con la luce una realtà differente, più profonda, più concentrata e volatile al contempo) e dai (fedeli) genitori di una micromunità essenziale. Mario avrà certamente dato prova di responsabilità di fronte al dolore e alla debolezza familiari in svariate e più intime altre occasioni, ma con questa fotografia aggiunge alla prova quotidiana e personale un suggello pubblico di qualcosa che può essere in certa misura trasmesso e condiviso. Che è poi il valore dell'arte (ma anche della storia, dell'economia, di ogni linguaggio e di ogni espressione culturale umana). O almeno, dovrebbe essere, se, in risonanza con l'ordine del tempo, e della responsabilità di fronte all'alterità, ne celebrasse coscientemente l'evento ogni volta diverso. Il che non significa irrigidirsi in un'immobile accettazione o in un facile fatalismo, al contrario. Significa semplicemente che si respira, si pensa, si vive, si soffre, gioisce, muore, spende, fluisce, vola, striscia, arrampica, dorme, corre e zoppica insieme. Anche quando ad arrampicarsi, morire, gioire, volare è momentaneamente uno solo, qualcosa (la cultura, ma anche altro, come la morte, e il linguaggio, e altro ancora) ci mostra i nostri legami con gli altri, sottolineando come quei legami corrispondano esattamente a quello che siamo e che ci costituisce come persone.
Conformazione: prefigurazione e trasfigurazione rispetto a una dimensione oggettivamente sovra individuale (anche se per la maggior parte del tempo si fanno i conti con una dimensione soggettiva) comune e tacitamente operante. Ma anche un rito di passaggio in cui quanto si è disperso o si sta per perdere viene eventualmente a raccolta per esser rilasciato subito dopo al suo destino, pregno di un'ulteriore valore a venire.
Nessuno e niente è individuale in senso assoluto e netto: ogni azione o processo del singolo verso una presunta, assoluta alterità ricade su di sé: non ci si salva da soli, e si muore tutti insieme, soprattutto dopo Auschwitz, Chernobyl e l'11 settembre.
L'ordine del tempo, delle cose e della vita chiede e attende il rispetto e la responsabilità di ciascuna creatura momentaneamente lasciata a se stessa e alla sua parte. Una comunità chiede a ognuno la sua risposta in merito al comune terreno e al comune tempo vissuti. L'ingiustizia di uno ricade su tutti.
Nella ricerca di Mario Bianchi il soggetto e lo stile parlano di un'armonia, una perfezione, una nettezza solo apparentemente facilmente avvicinabili e recepibili: vi è intensa la sofferenza, a somma fatica non trattenuta, obliata o rimossa, ma rielaborata e sublimata da un vero e proprio rituale fotografico di responsabilità di fronte alla morte.
Le sue immagini sono dei veri e propri saggi rituali: frutto – al contempo – di ascolto, testimonianza, apertura, meticolosa analisi e riflessione costante, da una parte, e di atti, codificati secondo norme e formule, volti a figurare e a dare senso ai momenti (in specie i più critici, più traumatici) dell'esistenza personale, collettiva, e cosmica. Non vi compaiono il distacco e lo spettacolo della pietà, né alcuna identificazione, ma composizione di velocità, ritmi e affetti tra individui (o parti di un supposto individuo) completamente diversi, eppure modalità differenti di uno stesso essere comune che lavorano a una ricomposizione differente.
«Sprofondarsi nel nulla apre un oblio sereno, ma essere cosciente della sua esistenza e sapere tuttavia che non si è più un essere definito distinto dagli altri esseri, questo è il culmine indicibile dello spavento e dell'agonia»: lo sciamano-fotografo diviene egli stesso catastrofe per comporre un nuovo ordine secondo l'ordine del tempo: la sua risposta è la sua responsabilità.
Fotografare può significare inseguire e catturare forme e composizioni: tumulti, eventi, ricorrenze, similitudini, intimità, superfici, profondità, gioia, morte, disastri, catastrofi. Le foto, come le immagini e i linguaggi nella loro essenza, possono permettere di documentare, registrare, esprimere, descrivere, convincere, istruire, terrorizzare, mimare, ma anche illudere, compiacere, sintetizzare, analizzare, deviare, nascondere, denunciare, e ancora cantare, ricordare, sognare, dimenticare, esorcizzare…
Mario Bianchi, da parte sua, ha intrapreso la difficile via di una condivisione ancestrale di temi oggi per lo più desueti in quanto non spettacolari (ovvero non velocemente e facilmente fruibili), ma invece coinvolgenti (perché inquietanti, perturbanti e disorientanti), critici e palingenetici. Le sue immagini sono le metabolizzazioni di un sacerdote-sciamano che non si prende cura mediante rassicurazioni illusorie o formule di ortodossia, ma attraverso una messa in crisi di nodi nevralgici fondamentali dell'esistenza e una denuncia della loro intrinseca chiamata a una risposta-responsabilità comune. Ciò che viene normalmente relegato all'individuo e sempre più all'oblio, è da lui convocato al cospetto di una luce (comune) per una trasfigurazione che ne rimetta in gioco il valore in seno all'ordine del tempo e alla responsabilità di viventi creatori e creativi.
«“Sacro” viene spesso confuso con “religioso”. Sacro, invece, significa separato, messo a distanza, appartato, ritirato. Il sacrificio opera un'assunzione, un toglimento del profano nel sacro: l'immagine si dà in un'apertura che ne costituisce, congiuntamente, la presenza e la distanza».
Tracce (1972-1980)
In questa serie di lavori di qualche decennio fa, così fuori dal tempo (in fondo, non databili) eppure in risonanza con esso nelle sue differenti velocità e dimensioni, il soggetto (più che l'uomo, come ritiene Mario) è il tempo.
Generazioni di minerali, vegetali, animali e uomini declinano il tempo e ne sono a loro volta declinate, perpetrate, annullate e modellate.
Un sentiero tra i monti, un passaggio millenario in una terra fluviale prima che arida e pietrosa, una scala di pietra all'infinito scolpita da infinite ascese e salite, strofinature, levigature, esitazioni…
Nell'epoca dell'usa e getta, della vita corta delle cose, della plastica, del silicio e dell'oblio immediato e continuamente all'opera, in una parola all'epoca della velocità, la stratificazione temporale si avverte quasi solo con l'ostinata sosta o sensibile decelerazione. Quando i segni del tempo sembrano esser sempre più interpretati come difetti, patologie, dromo-incongruità, allora l'asfissiante e congestionante e progressivo imbarazzo (ingombro, intralcio, impaccio, disturbo, ostacolo, paralisi, ostruzione) del presente tende problematicamente ad atrofizzare (nel migliore dei casi), se non a pervertire e spesso a comprimere ogni prospettiva temporale (singola o comunitaria) di respiro.
Le tracce invece danno respiro e danno vita: al tempo, alla generazione, alla morte, alla consunzione, al rinnovamento, al senso, soprattutto del tempo. Le tracce, parlando di mondi e situazioni trascorse, aprono nuove visioni e ulteriori percorsi. Il nuovo, se slegato dal passato e contraffatto per risolutivo, non finisce che ribadirne – per lo più – i difetti e le sciagure. Ma fortunatamente nei corpi dei minerali, dei vegetali e degli animali è iscritta memoria di quanto realizzato, raggiunto e ancora possibile diventare: il giardino è sempre in movimento. Al tempo della velocità sempre maggiore non pare però esserci tempo per la memoria.
Un esempio, un'immagine di scale è ineccepibile: una scala in primo (e quasi unico piano). Dei blocchi di granito di qualche milione di anni sono stati individuati, estratti e modellati a farne gradini e pareti portanti di una costruzione. I sali e i calcari sono affiorati lentamente, con l'umidità, e si sono fatti strada secondo tempi diversi nella compatta solidità minerale. La martellinatura non ovunque evidente e presente parla di una lavorazione umana dura e di durata, di tecniche millenarie di individuazione, estrazione, trasporto e scultura: evocazione persino di alcuni dei rumori più diffusi dal tempo della pietra. E poi gli innumerevoli passaggi (per lo più umani, ma non esclusivamente) a salire e scendere, appoggiarsi, trascinare, strofinare, cadere, soffiare, immaginare, complottare, ragionare, respirare, che hanno ulteriormente smussato, addolcito e spesso anche rimodellato gli stessi blocchi.
Sono diversi e differenti i tempi concentrati nei gradini e nelle pareti di questa immagine, che ne fissa e condensa per un attimo il corso e la consistenza: non c'è interpretazione “architettonica”, paesaggistica, narrativa, ma posa fenomenologica: messa tra parentesi, sosta della funzione scala o dell'elemento architettonico scala, e invece messa a fuoco della sua complessa materiale genealogia stratificata.
Ancor più intensa, e a tutta prima più astratta e semplice, posata, è la foto dello wadi Rum, in Giordania. è ancora una scala a determinarne la qualità e il carattere, ma non reale questa volta, bensì ideale e metaforica: si rimane spiazzati dalla scelta di una scala di proporzione: sembrerebbe dapprima di potervi andare a cercare nel piccolo solco di terreno arido delle formiche o dei licheni che ne animino l'asciuttezza e l'apparente prossimità, ma non trovandovi alcunché l'occhio se ne ritrae come alla ricerca di una messa a fuoco: ecco allora il frammento di un mondo atavico e sterminato abitato via via da terre in formazione, fiumi modellatori, pesci, e poi volatili, insetti, licheni, sterpi, erbe e semi vaganti, e poi capre, rettili, pecore, uomini, commercianti di materiali, sabbia, vento, pioggia… L'occhio ne rimane incantato a immaginarne le metamorfosi geologiche e biologiche, e la mente può vagare su scale differenti di considerazione: fino a diventare un corpo celeste, o il percorso di una cometa in un cielo trascolorato, una via lattea.
L'immagine dello wadi Rum è al contempo cosmica, terrestre, terrena, astratta e sacra: polivalente. Perché per Mario il cosmo intero, la terra e tutte le sue creature sono sacri, comuni e pregni di divenire e rivelazioni. Ancora, e in modo nuovo, l'interpretazione fotografica di Mario è scevra da ogni intento illustrativo univoco, occasionale, o narrativo sentimentale, o memorialistico personale. Il suo approccio è effettivamente più profondamente fenomenologico. Fa conoscere. Fa nascere insieme, come nel francese connaitre possiamo apprezzare. Concentra in un'immagine le esperienze dell'astronomo, del geologo, del geometra e del geografo, del commerciante viaggiatore e del botanico, dello zoologo, dell'architetto e del nomade. Con le relative temporalità a queste forme di conoscenza e a questi mondi connesse.
La serie Tracce ci parla di mondi, terre, cieli comuni, pluridimensionali e in movimento: sorta di cosmogonia se considerata nel percorso artistico di Mario Bianchi, una vera e propria Genealogia ancestrale e cosmica reinterpretata attraverso le tracce reperite nel giardino planetario. Di cui l'uomo non è che uno degli attori.
Artificio e natura (1981-1992)
La sovrapposizione umana al contesto cosmico può avere riflessi catastrofici, violenti e autodistruttivi se condotta in contrapposizione netta e antagonistica a una natura che comunque ne detta le leggi e gli equilibri. Il secolo che si va a concludere in concomitanza con questa serie di lavori di Mario, e quello che si va ad aprire, vedono un intensificarsi di eventi catastrofici provocati dall'uomo non solo nei propri stessi confronti, ma invasivi rispetto alle creature tutte e alla terra, ai cieli. Campi di concentramento e di sperimentazione genetica, preambolo di più diffuse e sottili manomissioni artificiali in campo alimentare e medico dall'ampissima portata, tuttora in corso e sempre mistificate; utilizzo dell'energia nucleare a scopi distruttivi – espliciti e impliciti – con le bombe su Hiroshima e Nagasaki e tutta una loro epopea demagogica, da una parte, e scoppio delle centrali di Chernobyl e Fukushima dall'altra (epifenomeni di una costellazione di eventi ben più ampia ma comprensibilmente e colpevolmente meno nota). Terrorismo, capitalismo e insostenibilità portati a livelli sovranazionali, internazionali e multinazionali.
Mario Bianchi non è insensibile a tutto questo. Un lavoro, della serie Artificio e natura, per tutti. L'immagine è al solito così perfetta da rassicurare, a tutta prima, confermare, illustrare. Invece ben presto l'artificio raffinatissimo e sapiente che la caratterizza ci sospinge sempre più come di fronte a uno specchio. Lo scorfano esageratamente e artificialmente pigmentato, fuori dal proprio elemento naturale – esso stesso stravolto rispetto al consueto aspetto e alla più feconda profondità e fluidità -, i particolari espressivi della bocca, dell'occhio, delle branchie e delle pinne stravolti, immobilizzati, spenti, anestetizzati, come indici di sciagura: non siamo forse noi tutti questa creatura dopo gli eventi traumatici e irreversibili di cui sopra? Il mondo di Tracce ha subito una Caduta: quanti pesci, uccelli, animali, vegetali e uomini in carne e ossa (letteralmente ed esclusivamente) sono stati obliati (in un crescendo di anestetizzazione) e soffocati nell'urlo cosmico che manifestavano? Basterebbe vedere, visitare e conoscere la situazione apocalittica di un'ampia zona intorno alla centrale di Chernobyl e confrontarla con prima dello scoppio della stessa. O riconoscere che le isole sterminate di plastica che pullulano nei nostri oceani non appartengono a un altro mondo, ma al nostro.
Nel mezzo del periodo interessato dalla serie Artificio e natura (1981-1992) c'è il 26 aprile 1986, data dello scoppio della centrale di Chernobyl, e dal primo momento in cui l'ho visto ne ho percepito risuonare il canto funesto nel sussurro di questo scorfano. Per vedere lontano nel futuro è necessaria una memoria lunga: «Chernobyl è un luogo antico, di numerosissima popolazione ebraica, benché scarse tracce siano rimaste di quel mondo per provare a immaginarlo. Fu il centro incontrastato del Hassidismo, che divenne l'anima di quei luoghi. Ma a Chernobyl e dintorni presero forma le più livide crudeltà delle guerre tra ucraini, russi e polacchi. Alle vendette staliniane si alternarono le stragi naziste». Storie di uomini, di potere, ma dopo l'incidente nucleare la questione diviene cosmica e interessa l'intero giardino planetario e le sue creature. Francesco Cataluccio ha dedicato un testo esemplare a Chernobyl, e forse ricordavo inconsapevolmente le sue parole conclusive quando ho accostato l'immagine dello scorfano a quel 26 aprile 1986. Come ad epigrafe:
«Eppure, nell'Apocalisse di Giovanni (8, 10-11), sembra esserci un accenno che aiuta a leggere la catastrofe Chernobyl: “Poi il terzo angelo squillò: dal cielo cadde un'enorme stella infuocata come una lampada e rovinò su un terzo dei fiumi e sulle fonti delle acque. Il nome della stella è Assenzio. Il terzo delle acque fu cambiato in assenzio e molti uomini perirono di quelle acque, perché si erano fatte amare”».
Quell'aprile anche molte altre creature perirono o videro stravolte le loro generazioni con mostruose conseguenze, e terre, e acque, e cieli in ogni dove del giardino del mondo. Un incidente locale si rivelò incidente planetario ed epocale, superando ogni confine geografico, generazionale e temporale: in questo senso risulta addirittura un incidente profetico. Ma anche, come rilevò Paul Virilio in una conversazione con Svetlana Aleksievič proprio su quella catastrofe, incidente della sostanza (una centrale esplose…), della conoscenza (a cominciare da quella dei fisici nucleari, surclassata e annullata dal'evento), e della coscienza (evento inintelligibile, oltre la coscienza).
Non temo d'esagerare, allora, interpretando la risposta (e responsabilità) di Mario all'incontrollato artificio di Assenzio con la composizione di questo pesce-vittima cosmica. Non con ridondanza, faccio questo, ma con la fiducia nel senso delle parole.
Compenetrazioni (1992-1998)
è una delle serie più viste e riconosciute nell'ambito del lavoro di Mario Bianchi: e giustamente, in quanto frutto di un'effettiva collaborazione con donne che si sono fatte carico della scelta – non facile – di mimare, talvolta addirittura rivivere un'esperienza atroce e crudele, dando luogo alla rielaborazione, interpretazione e quindi denuncia di una violenza umana.
Resta in sottofondo, ma non per importanza, un profondo, articolato, meticoloso e sensibilissimo lavoro di preparazione svolto tanto per proprio conto quanto relazionandosi alle interpreti. Gioco delicatissimo per il difficile equilibrio sempre sul filo di una pericolosa caduta, sempre possibile, quanto mai fatale. Ma Mario e le interpreti con cui via via ha condiviso tale lavoro si sono infine rivelati, soprattutto le seconde, ineccepibili.
Il frutto di tali particolarissime relazioni è una toccante collezione di rielaborazioni, oggettivazioni e manifestazioni della violenza, dalle donne coinvolte unanimemente immaginato e drammatizzato come stupro. Per ciascuna immagine ogni donna (le età tra l'altro variano anche sensibilmente) ha concordato col fotografo il luogo, la posa, le luci, l'abbigliamento, le distanze (spaziali e perciò anche temporali) d'inquadratura, le espressioni, e persino un non detto in questi casi determinante.
Lo sciamano si è qui dovuto apprestare a incontri-scontri con storie, persone, demoni e fantasmi: giacché il sonno della ragione genera mostri.
Leocadia
- Compassione crudele!
- Carità
- Non c'è da gridare
- Potremmo servire ancora
- Seppellire e tacere
- A ragione e senza ragione
- Non si può guardare
- Il sonno della ragione genera mostri
- Sani e ammalati
- Ecco che arriva il fantasma
- Appena giorno ce ne andiamo
- Trova un po' d'appoggio
- Infelice madre
Mi ha sempre colpito che nelle implicazioni più significative (e tuttavia più sottaciute e obliate) di molte guerre, soprattutto quelle scaturite più esplicitamente da presunte questioni etniche o nazionali, uno dei risvolti drammatici e costanti sia la violenza (infamante, schiacciante, deturpante, feticistica, sessista) sulle donne “nemiche”. Lo stupro è innervato in un sistema valoriale esclusivo, autoreferenziale, intrinsecamente autodistruttivo e assolutamente e pregiudizialmente ideologico. E fa tutt'uno con razzismo, “pulizia etnica”, “guerra santa”, “giusta causa” e questioni identitarie degenerative.
La Storia di Elsa Morante e le atrocità belliche degli anni novanta nell'ex Jugoslavia ci parlano di un secolo che non ha visto interruzioni in questo senso. Suggellate pubblicamente, le seconde, tra l'altro, da un appello molto “particolare” di Giovanni Paolo II alle donne bosniache stuprate: «Trasformate l'atto di violenza che avete subito in atto d'amore e di accoglienza». Ma donne che hanno visto morire il proprio compagno, il padre, i fratelli, i figli, dunque doppiamente, ennesimamente vittime, e pure vittime a loro volta oltre che di violenza fisica delle violenze “postume” e quotidiane del ricordo, della rielaborazione e di una maternità vissuta come supplizio e tormento prolungato… dove – ancora – possono trovare la forza per trasformare un negativo così abissale in positivo?
Il nuovo secolo, in tutto il mondo come in Italia, non solo non vede soluzione al riguardo, ma è obbligato a registrarne l'aumento di diffusione, sia a livello internazionale e pseudo-ideologico, sia nazionale, familiare, domestico Perché c'è come un versante sociale e “individuale” della questione che rivela manifestazioni parcellizzate e tuttavia, talvolta, patologicamente diffuse. Si tratta di fenomeni a scale differenti di una tristemente consolidata tradizione trasversale che relega le donne a esclusiva funzionalità riproduttiva, domestico-servile, quando non utilitaristico-maschilista. Il terreno è molto fragile, impervio, arido, e l'equilibrio vacilla in ogni momento nell'ambito di un sistema valoriale piramidale e monocentrico, in cui la donna dovrebbe sottostare all'uomo e al silenzio.
Il lavoro di Mario Bianchi, in questa serie di scatti, si confronta evidentemente con mondi i cui cardini (come in Artificio e natura) hanno rotto da tempo un qualsiasi equilibrio, e il perdurare di una condizione squilibrata non ne affievolisce (anzi) l'urgenza. La sua risposta e la sua responsabilità di fronte alla violenza nei confronti delle donne sembra per questo proseguire e acuire la serie precedente, come per darcene una più prossima, più familiare e perturbante, improcrastinabile e traumatica versione di denuncia, esposizione, smascheramento, segnalazione e accusa.
I mondi qui rappresentati, e non in senso iterativo ma intensificatore, non sono affatto mondi in cui ci piacerebbe vivere, eppure sono i mondi che compongono il nostro, vengono da questo e a questo lanciano un urlo. Rispondeva Francis Bacon a chi lo accusava d'inscenare nei suoi quadri l'orrore: «Quale orrore, cosa potrei fare per competere con quello che succede ogni giorno? Se leggi i giornali, se guardi la televisione, se sai quello che sta accadendo nel mondo, cosa dovrei fare per competere con l'orrore che esiste?». Mario non ha di mira l'orrore, ma il fatto che tutte le donne a cui ha chiesto d'interpretare la violenza abbiano risposto mimando (se non addirittura rielaborando!) uno stupro, ci parla di una realtà quotidiana quantomeno drammaticamente e diffusamente sessista.
Anche oggi, senza nemmeno doverla cercare nei luoghi più infelici, essa abita la nostra quotidianità. Sintomatico un articolo da http://www.retenews24.it/ del 2 febbraio 2015 che non devo minimamente faticare per reperire tra centinaia di notizie esemplari. «Un terzo degli studenti universitari statunitensi stuprerebbe una donna se avesse la certezza di non subire alcuna conseguenza. è quanto emerso da uno studio condotto dall'Università del Nord Dakota e pubblicato sulla rivista scientifica Violence and Gender. Nel corso della ricerca è stato sottoposto ad 86 laureandi eterosessuali un questionario per comprendere gli atteggiamenti adottati in alcune ipotetiche situazioni. Tra le altre domande è stato chiesto ai ragazzi come avrebbero agito in una situazione del genere nei confronti di una donna: il 31.7% degli uomini che ha partecipato allo studio ha ammesso che si renderebbe autore di violenza sessuale se fosse sicuro di passarla liscia.
Molti intervistati hanno mostrato di non avere piena consapevolezza della gravità delle risposte date, né del significato preciso del termine in questione: quando è stato chiesto loro più esplicitamente se si renderebbero autori di uno “stupro”, la percentuale di chi ha confermato la risposta iniziale è scesa al 13.6%. Per gli autori dello studio quest'ultimo aspetto indica un gap preoccupante tra chi, a parità di atteggiamento, concepisce come violenza alcuni gesti nei confronti delle donne e chi non lo fa (o lo fa comunque molto meno). Inoltre, dalle risposte di chi ha mostrato piena consapevolezza del termine “stupro” è emersa una maggiore ostilità verso il genere femminile.
Gli autori dello studio, come riporta il Daily Mail, hanno suddiviso chi ha risposto al questionario in tre gruppi di persone: “Chi non ha mostrato volontà di esercitare violenza di alcun tipo sulle donne; chi, pur mostrandosi disposto, non ha ritenuto stupro un atteggiamento del genere; chi si è detto disposto nella piena consapevolezza del gesto”. I dati richiamano quanto emerso in un altro studio, condotto nel 2012 dal National Center for Injury Prevention and Control: «circa un quinto delle vittime di violenza sessuale ha subito uno stupro nel periodo universitario da una persona di propria conoscenza. Tra le varie conclusioni è emerso il limite dei programmi standard di educazione sessuale associata alla necessità di concepire progetti di prevenzione maggiormente “personalizzati”».
Il lavoro di Mario Bianchi si conferma drammaticamente attuale anche se relativo a quasi vent'anni fa: eccone un'immagine esemplare.
Interno, pavimento a scacchiera composto da rettangoli chiaroscuri, piastrellato, freddo, direi addirittura cartesiano, dal momento che simula una freddezza dell'individuazione dimensionale dell'oggetto in esame; in luogo d'una parete, lo sfondo è costituito dalla parte inferiore di un non meglio identificato mobile in legno massello, dunque austero, anch'esso composto da moduli reiterati ma in questo caso curvilinei, o tondi, quindi elemento nel suo complesso più caldo, anche se con buona dose di ordine e autorità. La donna è quasi in ritirata verso il mobile, le gambe allungate e deformate dalla prospettiva ravvicinata sembrano delinearne l'allontanamento dall'obiettivo e da una posizione originaria. è come però se i piedi fossero rimasti il più possibile ancorati a un suolo, pur freddo, mentre il resto del corpo fosse stato invece costretto ad indietreggiare. L'esile e minima sottoveste bianca a cui cerca di aggrapparsi è come l'ultima difesa della donna o l'ultima pelle a cui attaccarsi per difendersi: ma la centralità della violenza è leggibile nel volto. In primis perché col busto condivide e subisce maggiormente, rispetto al resto del corpo, l'intera crudeltà della luce fredda, che ne appiattisce e raggela la plasticità; secondo, in quanto deformato, convulso, trattenuto e ferito esso diventa maschera ed emblema dell'intero corpo. Occhi e guance sono gonfi e lividi di dolore, offesa e oltraggio, raggelati da una glaciale brutalità. La parte violata è fuori dalla centralità dell'attenzione dell'osservatore, ma è al centro pressoché geometrico dell'immagine, coperta, più che con cura, con gesto di istintiva e difensiva chiusura. Sembra d'intravedere un principio di chiusura ad uovo, ma in effetti l'uovo è rotto, e occhi e guance a stento trattengono e contengono le repentine e al contempo immobili metamorfosi chimiche, naturali, ataviche prima che interiori, psicologiche, personali del dolore. La violenza è evidentemente già avvenuta, e quanto è a noi dato vederne non ne è che il postumo riconoscimento negli occhi, nel viso e nel corpo della vittima.
A quest'immagine vorrei accostare un lavoro che con una coincidenza incredibile ho reperito nel sito di un'artista britannica a sua volta vittima di violenza, Trecey Emin, con alcune sue parole. A confermare e far risuonare due lavori apparentemente così lontani eppure così vicini e votati a una comune sublimazione estetica nata da violenza.
«C'è violenza nel mio lavoro, soprattutto violenza contro le donne. Molti sono stati crudeli con me perché sono donna. Sono stata violentata a tredici anni da un ragazzino poco più grande di me. Si dovrebbe parlare più spesso di queste cose perché capitano anche agli uomini. è tempo di rompere questa catena di omertà: ecco perché nelle mie opere mi confronto spesso con l'adolescenza. è il momento in cui tutti possono farti ciò che vogliono.
Quando ero più giovane, accettavo la violenza come se fosse normale. Non mi aspettavo nemmeno di poter essere felice. Aggressività, sesso e bellezza sono state sempre legate nel mio immaginario. Molte mie opere sono ispirate da ricordi di amori passati e raramente si tratta di amori gentili».
Come la serie di Bianchi esplica nella sua quasi interezza, la violenza di genere nei confronti delle donne ha radici, incubazioni e sviluppi soprattutto in ambiente domestico: concorre a costituire (con altri pregiudizi che risulteranno perciò, dopo anni, pseudo-naturali), l'educazione sentimentale di milioni di fanciulle e fanciulli, secondo declinazioni ideologiche, morali, affettive ed educative sotto questo aspetto poco differenziate, giacché accomunate dalla patologica e socialmente legittimata sottomissione della donna all'uomo.
In questo senso è difficile distinguere l'individuale dal sociale, l'amorale dall'amorevole, la convenienza dal costume: laddove non matura una responsabilità – ovvero una risposta (personale e sociale), anche di rivolta, di opposizione o di rivoluzione – rispetto alla pari dignità di ciascuna forma di vita differente dalla propria, è come se il comune terreno non fosse che la comune preda destinata al più forte: processo autodistruttivo, selettivo ma autodistruttivo, giocato com'è su valori tutt'altro che equilibrati, armonici e aperti.
I mostri che ne nascono non sorgono e crescono isolati, ma in una cultura autoreferenziale che spesso ne avvalora, sostiene e riconosce (anche se tacitamente e inconsapevolmente) i criteri fondamentali. Deriva fondamentalista di sistemi a tutti gli effetti pseudo religiosi; deriva nazionale di popolazioni in forte difficoltà economica, culturale, sociale; deriva familiare di restrizioni e costrizioni generazionali; deriva affettiva di uomini senz'altri punti di riferimento che l'annullamento dell'opposizione, dell'alterità, dell'indipendenza: il sonno della ragione genera mostri internazionali, nazionali, sociali, domestici e familiari.
Pare, infine – questo stesso complesso nodo -, sostanziare la scelta, altrimenti difficilmente avvicinabile, per il ciclo d'immagini d'un titolo come compenetrazioni, opzione terminologica in sé violenta se accostata d'acchito a simili foto. Ma il dottor Jeckyll e Mister Hyde non erano due persone diverse: e alla fine, se il rapporto è violento e gerarchico, gli esiti sono drammatici per entrambi. La violenza è sempre doppia, sulla vittima e sul carnefice. Si compenetra.
Morbosità (1999-2007)
«Lo sciamano, diversamente da quanto succede per il sacerdote o il re, non deriva da un'istituzione, ma ha base empirica, possiede facoltà innate o trasmesse e, a differenza dello stregone-medico, ha un comportamento di carattere estatico, in trance, è ponte fra le energie spirituali e quelle terrene, testimone disinteressato e spersonalizzato del corso del tempo e delle forze della natura, che mette a disposizione degli altri uomini attraverso dono e comprensione. Durante l'estasi si impadronisce di lui una forza (che può essere concepita sia dinamicamente, come impersonale, sia animisticamente, come spirito o demone): con questo aiuto lo sciamano influisce sulla vita dei compagni. Gli Sciamani sono protettori della mitologia dei raccoglitori – cacciatori (la cui vita era basata sull'economia di sussistenza, sulla predizione e sul rapporto diretto con la natura) con un ruolo fondamentale sull'evoluzione delle società di cui facevano parte. Le regole fondamentali della pratica sciamanica sono il rispetto dell'individualità e della libertà di ogni singolo individuo; divieto per lo sciamano di nuocere a sé e agli altri, mancare di rispetto alla Madre Terra e a qualsiasi espressione di vita, nonché ricevere compensi in denaro. Aspetto significativo della “cura” nella credenza sciamanica è che la guarigione è sia fisica che psichica. Parte della psichiatria moderna attribuisce le eventuali guarigioni ad ipnosi o auto ipnotismo o anche ad ipnotismo collettivo. Gli strumenti musicali, per esempio, con il frastuono violento che spesso accompagna queste pratiche, “strappano” il guaritore ed il paziente dalla loro solita esistenza, con funzione terapeutica».
è in questo senso che nella presente lettura del lavoro di Mario Bianchi ci siamo permessi di evocare per lui la figura dello sciamano-fotografo. Ponte tra ombra e luce, attraverso di esse egli ne scrive le molteplici variazioni in chiave fenomenologica, artistica e terapeutica-in-quanto-conoscitiva. Considerando, cioè, l'oggetto via via destinato all'immagine e poi immaginato come contemporaneamente mondo a sé e come parte di un mondo più grande o più piccolo, un olone, come si diceva. La trance è così in questo contesto la messa tra parentesi e la decontestualizzazione di ogni riferimento corrente, per una nuova riconsiderazione e ricontestualizzazione dello stesso a ulteriori livelli simbolici.
Il fatto è che i riferimenti (concreti, ideali o concettuali) convocati nei suoi cicli riguardano questioni fondamentali, essenziali, universali, e non si degradano mai ad una semplificazione riduttiva, al gusto del particolare tanto diffuso. Farsi carico della loro gravità, e assumerne intera la portata, non è che la sua risposta-responsabilità, insieme a una trasfigurazione e ricomposizione che non ne tralascia alcuna complessità: alla fine la dimensione terrena, quella terrestre e quella cosmica sono sempre (com)presenti, come la vita e la morte, la caduta e l'ascesa. Ma anche quelle fisica e psichica, ben lungi da una riduzione meccanicistica cartesiana.
Morbosità rientra appieno in un tale compito intrapreso da Bianchi: di più, con la precedente serie, squaderna una delle tematiche più dolorose e obliate per spiazzarne e rivalutarne la portata. Anche in questo caso il titolo dimostra di essere molto più complesso di quanto non suggerisca: come la violenza sulle donne ci riguarda tutti e ci chiama ad una responsabilità a vari livelli, così la morbosità ci appartiene del pari indistintamente e tutti ne siamo chiamati a rivalutare la consistenza. Soprattutto dopo il salto simbolico fattole compiere da Bianchi in campo extramedico: con bellezza e fascinazione, ammiccamenti alla storia dell'arte e alla storia delle religioni, e ribaltamento delle consuete modalità di rappresentazione del morboso.
Non compare dolore, né sofferenza o compassione. I corpi che interpretano la serie sembrano già avviati alla sublimazione dei lavori successivi di Bianchi, pur nella drammaticità di ciò di cui portano il segno. Sono le pose quasi a neutralizzarne la compassione e a provocarne l'ammirazione, scultoree, astratte, eterne. La perfezione dell'infezione è estraniante, disorientante, persino cinica. Mentre l'infezione della perfezione, con la sua cura del particolare e del totale che non lascia fuori posto nemmeno una ruga, un neo o un'ombra diviene contagiosa e anestetizzante. Il morbo ammorba con tale discrezione, precisione e vitalità da far apparire il corpo umano un suo campo d'indagine, d'espressione e di prolificazione. Il corpo perde i suoi consueti connotati di forza, bellezza, armonia e movimento per cederli al morbo.
L'indagine di Bianchi raggiunge a tratti il limite del ribaltamento dei consueti concetti di normale e patologico. La luce della sua fotografia l'ha portato a illuminare le tenebre insondate di un mondo infettato dall'uomo, fino alle estreme conseguenze, e a scorgervi il trionfo del morbo.
Nessuna catastrofe o apocalisse, piuttosto una logica del morbo che irrompe in una tradizione culturale e artistico-formale consolidata minandone ogni certezza e stravolgendone ogni orientamento precedente. Sono uomini e modalità di valutazione del mondo ben precisi ad aver preparato terreno fertile alla sua venuta: desertificando, sterminando, annullando, svalutando, ignorando di giungere al momento in cui «tutto ciò che agisce è crudeltà». «Nella fase di degenerazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti», affermava Artaud. E Bianchi concentra questo suo lavoro proprio sulla pelle, quella superficie umana che rivela profonde risonanze con una metafisica dell'autodistruzione.
Nel momento e nella situazione in cui ciò che conta sono gli assolutamente illusori, individualistici e caduchi valori dell'utile, del consumo, della gerarchia, è il morbo a ricordarcene la fallacia, a mostrare cioè l'effettivo processo (inorganico e organico) sovra individuale, comune, cosmico. Ed è il morboso (e la diffusione del morbo) ad avere la meglio.
Lo sciamano constata e ci fa condividere la disfatta dei suoi simili e l'irrompere, il diffondersi e l'affermarsi del morbo.
Nell'immagine che Mario ha scelto per questa serie, una donna si mette a nudo e si mostra alla luce spietata del testimone-sciamano nella sua disfatta: il processo anoressico e la resa, l'abbandono, la passività e la forza di gravità determinanti non descrivono però che il lato umano, mentre prorompendo fino a invadere l'oscurità, divenuta così positivamente significativa, il morbo invade, riempie e ammorba con la sua affermazione.
Il fondo oscuro è convenzionalmente misterioso, negativo, ignoto e pauroso se visto in una prospettiva riduttivamente umana, ma diviene orizzonte affermativo, territorio di conquista agli occhi del morbo.
Si chiarisce tra l'altro, proprio in questo senso, una lettura della maternità come morbosità, a prima vista a dir poco inquietante. Compare infatti nella stessa serie una donna senza volto e in stato di gravidanza avanzata: addirittura due creature in una, ovvero, dal punto di vita del morbo due prede in una…
Morbosità consiste in questo modo, con preamboli in Artificio e natura, e sviluppi sconcertanti in Compenetrazioni, nell'esperienza limite affrontata da Mario Bianchi della Caduta. Caduta tutta umana, non c'è dubbio. Ma Trionfo e ascesa dell'Artificio, prima, della Violenza, poi, e infine del Morbo. La lucidità femonologica, antropologica, civica e cosmica al contempo che irradia da questo percorso dimostra una capacità critica sempre attenta, pronta e pur in sintonia con tempi lunghissimi. Vegetali. Geologici.
Ulteriori esperienze decisive porteranno Bianchi verso nuove prospettive e nuovi orizzonti di senso, luce e responsabilità. Il fondo toccato con tatto, rispetto, coraggio e altruismo, di una Terra e di un Terrestre ormai desolati, violentati e ammorbati, lungi dall'esser rinnegato, occultato o mistificato, non sarà rimosso, ma diverrà il fondamento, il punto fermo e d'appoggio estremo per una risalita.
Elevazione (2008-…)
Fuggi lontano da questi morbosi miasmi,
vola a purificarti nell'aere superiore,
e bevi, come un puro e celestiale liquore,
il chiaro fuoco che colma i limpidi spazi
è lo stesso Bianchi a sostanziare con le parole di Baudelaire la risalita dai morbosi miasmi, e a condividere con una delle più coraggiose pagine dei Fleurs du mal il titolo della sua nuova serie di lavori: élévation.
è un vero, tangibile, ideale, fisico e metafisico salto. Tutto si riapre. Gli scenari si riaprono. La luce solare pian piano ritrova posizione rispetto a quella artificiale. La figura umana, alla deriva fino alla frammentazione, ritorna non solo intera, ma in un suo mondo, prima, e in equilibrio con esso, in un mondo comune e cosmico poi.
E quanto è più umanamente e socialmente interessante tornano i nomi propri: la danzatrice Valentina Malaspina, ad esempio, interpreta alcune delle sperimentazioni più raffinate dei primi lavori di questo ciclo. Mentre l'amico Ciano Pani, gallurese, ne partecipa un'ulteriore percorso di ricerca intrapreso in terra di Sardegna con uomini e donne sarde e tuttora in fieri.
A questi, come alla danzatrice in modo più concentrato (artistico e simbolico), Bianchi ha chiesto d'interpretare un momento d'estasi, rapimento, concentrazione subliminale nell'ambito della propria personale, consolidata e partecipata attività (umana).
Sul canovaccio di “Elevazione” matura silenziosamente e cresce l'innesto intitolato “Esser mastros de sabìdoria”. Si tratta di scatti letteralmente ricchissimi, potenti e pregnanti: veri e propri saggi. E veri e propri mondi, con la propria terra, i propri cieli, i propri sensi e saperi, i propri ritmi. Cosmogonie.
Le immagini trapassano in effetti dalla biografia alla cosmografia e viceversa. I soggetti non rimandano ad altro, ma sono parte al contempo di una dimensione propria e di qualcosa di più ampio, coinvolgente e avvolgente: di più, son quel che sono proprio in quanto hanno saputo interpretare mondi, attività e comunità.
E infatti vi concorrono nella composizione le giornate preparative e condivise, le biografie radicate nelle genealogie, nelle geografie e nelle mitologie, i volti (e le voci, e le mani, spesso noti anche in “continente”), che rivelano innervate su di sé le vive radici millenarie da cui provengono e verso cui son diretti.
Ad esempio, il lavoro dedicato a Chiara Vigo, Maestro di Bisso, la ritrae in riva al mare (e insieme ad esso) inondata dalla medesima luce cosmica, radente, radiosa, felice, lenta, e sicura:
«Nel Giuramento dell'acqua è chiaramente espressa la volontà di mantenimento di un'arte come bene dell'umanità e non come proprio consumo personale. Si può anche parlare in senso tecnico di cosa è necessario fare per trattare la fibra, ma è ovvio che non si può tradurre in parole un patrimonio gestuale così antico».
E il ritratto di Martino Deiana: «Martino: Pastore e Cantadore. Martino ama il suo lavoro. Le sue caprette lo seguono tutte insieme, conoscono il percorso e a volte lo precedono, altre si allontanano troppo ed allora basta un suo acuto fischio per vederle trottare verso di lui come docili scolarette. Martino ha dovuto iniziare a lavorare molto presto, ma è felice, in lui c'è poesia e il suo canto con gli amici esce spontaneo e penetra sotto la pelle, coinvolge e ti lascia senza respiro».
Elevazione coi piedi ben per terra, si può ben affermare; e occhi, mani, orecchie e piedi sincronizzati a condividere (e comprendere) armonie insieme umane, energetiche, cicliche, ritmiche, animali, vegetali e minerali…
«Le regole fondamentali della pratica sciamanica sono il rispetto dell'individualità e della libertà di ogni singolo individuo; divieto per lo sciamano di nuocere a sé e agli altri, mancare di rispetto alla Madre Terra e a qualsiasi espressione di vita, nonché ricevere compensi in denaro. Aspetto significativo della “cura”. nella credenza sciamanica è che la guarigione è sia fisica che psichica»: i conti tornano, e tornerebbero vieppiù a conoscere Mario da vicino e a condividerne momenti quotidiani minimi e sempre cosmici, ampi, comprensivi: la sua pluridecennale attività d'insegnante – ad esempio – aperto, disposto all'ascolto come alla declinazione per ciascuna realtà della sua attenzione, attività solo formalmente e burocraticamente conclusasi, prosegue nelle sue innumerevoli attività di catalizzatore, protagonista, amico, spettatore, critico, maestro e promotore; l'altrettanto consolidata frequentazione delle pratiche, sensibilità e saperi della cultura orientale sussumibili nell'arte del bonsai e del suiseki, ne rivelano un'ulteriore approfondimento, per altro felicissimo oltre che effettivamente copioso: non si tratta che di ulteriori felici sviluppi di una coerenza che proprio in quanto vitale, verace e autentica si palesa e diffonde comunemente in ogni sua attività.
Roberto Gelini, 2 marzo 2015